Innanzitutto vorrei accennare a quali sono i punti di riferimento di questo romanzo. In primo luogo ci si deve riferire a una storia di romanzi polizieschi ‘cattolici’, sia letterari che televisivi o cinematografici, che va da padre Brown allo strano e popolarissimo don Matteo interpretato da Terence Hill (che tra l’altro è un ospite del Meeting 2016). Il poliziesco ‘cattolico’ è una forma letteraria. Tra l’altro molto amata da don Giussani, che vedeva il tenente Colombo, Kojak, Maigret, quindi non solo autori cattolici. Questa forma letteraria è definita dall’idea che, dentro la forma poliziesca, viene indagato il personaggio. E’ tutt’altro dal romanzo d’avventura classico, superficiale in cui l’attenzione è quella tipica del film hollywoodiano che è rivolta a quello che capita. Invece qui, nell’indagare il personaggio, uno è costretto a cesellare gli aspetti del carattere. Se vogliamo a questo tipo di romanzo appartiene anche la letteratura che è la più alta di tutte, come “Delitto e castigo” di Dostoevskij, che di fatto è un romanzo poliziesco. In questo senso la forma della letteratura poliziesca è la migliore per entrare pian piano nel personaggio. Tutto il focus non è su quel che capita, non è un romanzo alla Verne, per intenderci, o alla Salgari, è un romanzo in cui pian piano, gli aspetti dei personaggi vengono a galla, e vengono a galla in modo drammatico. Se vogliamo anche “I promessi sposi” hanno al centro le persone. Ma il poliziesco è caratterizzato dal fatto che i colpi di scena sono come degli avvenimenti che illuminano le persone. E poi c’è anche un’altra caratteristica, questo tipo di romanzo crea un gioco con il lettore a chi scopre prima questi aspetti. Li scopre prima lo scrittore o sei tu per primo a intuire una cosa che ha a che fare con i personaggi?
Questo è il primo filone di riferimento di questo romanzo.
L’altro filone è quello del giudizio universale. Chi ha letto l’ultimo romanzo di Doninelli, “Le cose semplici”, ha trovato l’idea della fine del mondo incombente come qualcosa che ha a che fare con la consunzione della vita quotidiana. Come se la vita quotidiana non ce la facesse più ad andare avanti, e quindi incombesse una fine umana del mondo. Rispetto ai film catastrofistici di qualche anno fa, che mettevano al centro un’esplosione atomica, nucleare, la distruzione a causa della guerra totale, qui invece si tratta della fine dell’umano.
In una intervista Alberto dice che l’idea del romanzo gli è nata sentendo una riflessione di papa Francesco nel dicembre 2013: “Quel giudizio finale è già in atto, incomincia adesso, nel corso della nostra esistenza. Tale giudizio è pronunciato in ogni istante della vita.” Il giudizio universale è la vita di tutti i giorni vista nella prospettiva del destino finale. C’è una vecchia canzone degli anni settanta tradotta dal gruppo Zafra, tratta dalla tradizione delle canzoni latino americane, che in un verso dice: “fece questo gesto come fosse l’ultimo.” Questo gesto ha un valore che va al di là del tempo.
Quindi ne “Il maestro vetraio” si intrecciano questi due generi letterari: ma per ospitare che cosa? Innanzitutto i personaggi. E i personaggi del romanzo sono, se vogliamo usare un termine ecclesiastico, personaggi ‘bergogliani’, se vogliamo usare un termine artistico, sono personaggi ‘jannacciani’. La prostituta dell’Est, il trovatello Nick, il Barba che gestisce il bar tabacchi, l’albanese falsario, Davide il ragazzo depresso: non è la Venezia dei palazzi nobili. Qui anche la Venezia della politica rimane sullo sfondo. Non è neanche la Venezia borghese degli imprenditori. I protagonisti del romanzo sono i personaggi marginali, hanno tutti ‘le scarp del tenis’ ai piedi. Sono quelli che, soprattutto in una città come Venezia, di solito non si guardano. Appunto, si guardano i nobili, si guardano i borghesi, i potenti, si guardano gli imprenditori, i grandi artisti, invece i personaggi del romanzo sono quelli che disturbano i turisti. In una città come Venezia sono quelli da eliminare, che impediscono il turismo, spaventano l’americano e il russo. Invece questi personaggi ci sono nella realtà e il romanzo guarda questi.
Ma come li guarda? Li guarda in funzione della bellezza. Perché le vetrate, che poi corrispondono ai capitoli del libro, raccontano storie normali, sono storie normali, ma belle. Come dire: c’è una bellezza nell’ultimo. Una bellezza che tu di solito non vedi. Si può fare ‘Gomorra’ in cui il brutto è brutto, anzi lo si fa diventare ancora più brutto di quello che è. Si può fare un romanzo alla Dickens in cui si deve far risaltare la miseria, Oliver Twist, David Copperfield, questo tipo di romanzi sociali. Oppure puoi far vedere questi personaggi come una bellezza, un bello che di solito non vedi, come nelle canzoni di Jannacci, di Gaber, dove questi personaggi sono belli, sono dei protagonisti. Infatti li devi rappresentare insieme alle vetrate. La Venezia dell’arte, la città del ‘bello’ per antonomasia nel mondo, vive insieme a questi. Non è un’altra Venezia, vive insieme a questi ‘ultimi’. Gli ‘ultimi’ sono belli. C’è una grandezza nascosta in questi emarginati. E infatti devi vederli nel contesto delle vetrate. Perché?
E qui apriamo un altro riferimento letterario che per me è grandissimo, si tratta di questo grande scrittore cattolico che è Graham Green. Chi lo ha letto sa che in Graham Green, come in tutti i grandi scrittori cattolici, nessun malvagio è totalmente malvagio e nessun buono è totalmente buono. Perché il manicheismo alla ‘Gomorra’, che è pessima letteratura ed è stata fatta passare come interessante per motivi politici, deve dividere il bene e il male. Ma il mondo non è così. Infatti questi personaggi che sono marginali, sono pieni di male, ma sono anche pieni di bene. Sono pieni di desideri. Ricordatevi per esempio di Graham Green, nel romanzo ‘Una pistola in vendita’, là dove c’è il malvagio assoluto, il malvagio col labbro leporino, che rapisce la ragazza, e c’è questo dialogo con lei in cui si capisce che lui ha dentro un disperato desiderio di bontà. Non esiste il malvagio totale perché tutti hanno il cuore, il cuore che parla. E neanche i buoni sono buoni. Non c’è la parte buona. La politica è corrotta, ma anche il mondo normale, il mondo della polizia, non è totalmente buono, non è fuori da questo dramma.
Perché il tema non è il bene e il male, ma è piuttosto il bisogno di redenzione. L’idea che, in qualche modo tutti, guardando questo bello, cercano, desiderano, la grazia. Desiderano che questo male sia vinto anche se ci sguazzano, ci vivono insieme. Vi sembrerà che queste siano cose letterarie. Come a me sembrava una cosa letteraria quando Giussani ne ‘Il senso religioso’ diceva che i bravi prima di andare a fare un’impresa chiedevano la benedizione. Poi ho conosciuto uno che nella vita faceva il ladro e a un certo punto ha smesso di fare il ladro ed è diventato del movimento. Lui mi raccontava che quando stava ancora facendo il ladro, ma si stava convertendo, una volta andò per fare un colpo. Loro non sparavano, facevano dei colpi di destrezza. E lui, che era il cervello della banda, trova una vetrina bellissima, isolata, senza antifurto: negozio perfetto. Invece lui torna dai suoi e dice: “No, lì noi non possiamo. Troppo pericoloso, ci prendono.” E mi diceva: “Sai, io ancora rubavo, ma ero già dalla parte nostra, e in quella vetrina c’era una Madonna. E, se avessimo rubato lì, quello del negozio avrebbe perso la fiducia nella Madonna. Io non potevo farlo.”
Questi sono i personaggi di questo romanzo. E tu puoi fare il male ma sei già dall’altra parte, non appartieni più a questo male perché desideri la grazia. Nel romanzo ci sono passaggi non didascalici, come il protagonista Benedetto, Elena, la moglie del vice ispettore, Sonia, la prostituta moldava che desidera cambiar vita, (e non so se è un caso, ma il nome non può non far venire in mente la Sonia protagonista di “Delitto e castigo”, colei che è il punto di cambiamento per Raskolnikov).
Come nei bei romanzi, nei grandi romanzi, questo cambiamento non è ostentato, non è un’ideologia. Perché i romanzieri cattolici che sono ideologici sono insopportabili, vogliono far vedere che c’è la conversione a tutti i costi, come nei film di Frank Capra. Ma chi ci crede? Invece la conversione, come diceva Carron agli esercizi spirituali di Comunione e liberazione, è un metodo sommesso, avviene in sordina, si vede tra le righe. Il cambiamento, nei personaggi in cui si compie il romanzo, è in punta di penna, bisogna riconoscerlo, non sono dei fatti clamorosi che avvengono, non sono dei percorsi in cui riemerge, ancora una volta, il manicheismo di ritorno. Tutta la trama del romanzo, ed è questo il senso del giudizio universale, è verso un bene che capita, ma è un bene che è misto, come nelle nostre vite, non è bello pronto come nei supermercati, con intorno la plastica dai colori artificiali. E’ da vedere, è tra le pietre.
Una delle pagine che forse interpretano tutto il significato del romanzo è il dialogo del prete che prova a sedare l’irrequietezza di Benedetto nel momento in cui la ragazza che l’ha colpito all’improvviso svanisce. Dice don Giuseppe: «Vedi, c’è una paura cattiva che nasce da un piccolo errore di partenza, come quando ci alziamo al mattino e ci illudiamo che le cose siano nostre: la vita, la salute, la carriera, i capelli, il naso, le mani. (…) Si può costruire una vita, un intero mondo, su questa illusione. Fino a quando, a un tratto, per qualche caso della vita, ci accorgiamo che la verità è un’altra…».
Infatti che cos’è il male? Il male è il peccato? Il male è l’errore? E’ la prostituta, il trovatello, il bar strano del Barba, il falsario? No, il male è un’altra cosa. Il male è l’insicurezza esistenziale, per cui tu, non sentendo il presagio di una grazia, di un amore, costruisci una vita sulla ricerca del potere. Che è il tema di questo Meeting. Allora l’altro non è più una risorsa, ma lo devi dominare. Di un uomo di questo tipo c’è da aver paura. Perché deve affermare se stesso in quello che sta facendo. Allora ogni cosa perde il suo destino da giudizio universale e diventa un pretesto per affermare il potere.
Invece se domina la grazia, se domina la percezione che c’è un bene che sta affermandosi, nel chiaro scuro della vita, nei peccati che rimangono, allora il cammino è sicuro. E’ un cammino che assomiglia, per chi ha fatto un po’ di matematica o di statistica, ad una sinusoide. La sinusoide è una finzione che va su e giù, ma è una funzione che va avanti, perché è un ‘su e giù’ che va avanti. Ed è come la vita che traspare qui, nel romanzo, è la vita appena accennata, come in una vetrata con i colori soffusi, che dietro questo coacervo che è la vita c’è un filo che va. Il filo di un amore che uno può percepire quando è proprio abbandonato, quando è perso, quando non ha più niente. E allora, invece che attaccarsi alle cose e corrompersi capisci che c’è un’altra strada.
Penso che questo sia il contenuto del romanzo. E proprio perché non è un romanzo a tesi, proprio perché questo bene e questo male si mischiano, molto più di quello che ho fatto io per essere comprensibile, è un romanzo godibile, che si legge volentieri. Ma alla fine rimane quello che si prova quando si beve un buon vino, il retrogusto, qualcosa che senti e che ti dura per tanto.