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“Il maestro vetraio”, un giallo appassionante (ma non solo)

«Venezia era apparsa all’improvviso». Questo l’incipit de “Il maestro vetraio”, il romanzo che Alberto Raffaelli propone, per le edizioni Itaca, dopo il successo, favorito anche da concomitanti fatti di cronaca, de “L’Osteria senza oste”.

E Venezia non è solo uno sfondo nel romanzo di Raffaelli. Non è un luogo letterario. È un luogo vero, vissuto in prima persona dall’autore. I riferimenti topografici sono sempre molto puntuali. Raffaelli Venezia l’ha vissuta, l’ha amata e nel volume questo amore diventa conoscenza profonda, dettagliata. «Venezia è come una vera da pozzo, una di quelle che sorgono in mezzo ai campielli, su cui possiamo sporgerci per ficcare lo sguardo nel buio e cercare là in fondo… Perché non si può amare davvero senza cercare di capire».

Venezia però è anche Marghera, una periferia violentata dagli insediamenti industriali che poi hanno lasciato lo spazio ad abbandono e desolazione, oltre che a traffici di merci e denaro quando non di persone. Ma proprio in questa periferia devastata sceglie di operare – anzi sono i fatti che lo conducono, una commessa del Comune di Venezia – Benedetto Zaccaria, figlio di maestro vetraio e vetraio lui stesso, che lavora per recuperare la chiesa diroccata della Madonna del mare senza ricostruire la muratura, ma installandovi attorno una vetrata in dodici quadri.

È proprio la figura di Benedetto e i quadri della sua vetrata a dare il ritmo e indicare l’orizzonte ultimo del romanzo. Perché se con “Il maestro vetraio” le regole del giallo sono rispettate fino in fondo – del giallo ha la struttura, il ritmo serrato, la consequenzialità delle situazioni – giallo tuttavia non si può definire. La narrazione si configura piuttosto come un grande affresco, scandito dalla descrizione dei singoli quadri della vetrata. Un Giudizio Universale (evidente e presente nel libro il riferimento ai mosaici di Torcello) dei nostri tempi, in cui entrano storie estreme, crude, scene di ordinari inferni generati dagli idoli dell’usura, della lussuria e del potere, ma anche scene – potentissima e dal sapore dostoevskiano l’ultima dei mendicanti – in cui emerge la forza del perdono e della misericordia. Raffaelli racconta la corruzione, lo sfruttamento, la falsità dei potenti, le trame dell’autorità civile e la compiacenza delle sfere ecclesiastiche e nel contempo lascia agli “ultimi” il compito di dire un’ultima parola su tutto ciò. Che non è una parola di condanna.

Se questo è l’intento e l’impianto del romanzo, dobbiamo aggiungere che l’autore poi ci regala una serie di personaggi che sa gestire con disinvoltura, sempre freschi e credibili. Benedetto, anzitutto, figura cardine del romanzo, l’investigatore Giovanni Zanca (già presente ne “L’Osteria senza oste”), l’ambizioso vicesindaco Marco Scarpa, il misterioso “Barba”, gestore di un bar di Marghera e forse di molti altri affari non sempre puliti, ma anche gli indimenticabili Nick, il ragazzino che ha adottato una gallina, Orges, il ladro di timbri (in una delle pagine più irresistibili dell’opera), o lo stralunato Davide con la sua insolita forma di disabilità. Personaggi coerenti (con qualche riconoscibile cenno a persone reali), ben orchestrati, per una vicenda che si legge d’un fiato e che mescola i registri della cronaca e della narrazione di ampio respiro, dell’ironia e del dramma, tenendo sul filo il lettore fino alla poetica, lieve conclusione.

Dal blog “C’è gloria per tutti” – Eugenio Andreatta

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Padre Rupnik

Caro Alberto,
finalmente le posso rispondere. Ho lasciato che la lettura si depositasse un po’ e trovasse le parole giuste per darle un parere.

È riuscito a fare della speranza un bel romanzo, così direi. È riuscito a far passare la certezza che non siamo costretti ad adeguarci. Che per tutti c’è la salvezza, la possibilità di redenzione, di ascoltare quella voce che non da pace e che ci fa risalire dagli abissi. E soprattutto che c’è posto per tutti, che tutto ha un senso. È un crescendo di incontri il suo libro e anche la stessa scrittura procede via via con più sicurezza e diventa essa stessa appassionante.

Con brevi tratti è riuscito a fare il ritratto dei diversi personaggi dando a ciascuno un volto, uno sguardo ma, interessante, almeno come lo percepisco ora ripensandoci, non direi che c’è un personaggio principale, benché certo Benedetto tiri un po’ le fila di tutto, ma una coralità, un intreccio dove ognuno trae il senso dalla storia dell’altro. Un po’ come in ogni vetrata, fino all’ultima, il pezzo forte, “Io Sono”. Una sintesi non solo spirituale ma che addirittura si affaccia in teologia. Ed è commovente. Solo qualche sfumatura sotto l’aspetto teologico avrebbe bisogno di un ritocco, ma il coraggio di una riproposta del mondo come simbolo, e della storia come simbolo e degli eventi come simbolo è una cosa che viene incontro a ciò che lo Spirito chiede oggi in Europa. È già per questo e per l’originalità di disseminarla e velarla durante il racconto mi congratulo con lei.

In parentesi le devo anche che l’idea del ladro di timbri mi ha totalmente accattivato e acceso la fantasia… un’intuizione che ha superato la letterarietà e si è agganciata alla pratica esperienza che spesso fa desiderare di avere in mano questa bacchetta magica per risolvere problemi che hanno bisogno di ben più di un timbro per essere risolti ma che senza il timbro non si possono risolvere!

Auguri davvero, magari un maestro vetraio coglierà anche l’idea architettonica di inserire un pezzo d’arte tra le rovine, pure questa visione non mi è dispiaciuta!

Ogni bene!
p. Marko Rupnik

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Giallo. Che cosa c’è dietro la vetrata?

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La misericordia è un mosaico di storie

IL MAESTRO VETRAIO di Alberto Raffaelli, Itaca 2016

Il secondo romanzo di Alberto Raffaelli (il primo fu il fortunato L’Osteria senza oste , 2014) si muove tra i due poli di Venezia e Marghera, entrambi ben conosciuti dall’autore. Difficile pensare a luoghi tanto vicini e tanto diversi: il primo, centro di incanto e fascinazione senza fine, simbolo per definizione dell’onirico e dell’immaginario, città di artisti, commercianti e viaggiatori; il secondo, negli anni ’60 e ’70 sede di un impetuoso sviluppo industriale, tanto da diventare uno dei principali poli chimici d’Europa, poi ridotto ad area in gran parte dismessa e degradata. I due luoghi, diversissimi, sono qui accomunati dalla corruzione e dal degrado, i quali colpiscono i piani alti dei palazzi del potere quanto le periferie devastate dall’immigrazione clandestina, su cui fiorisce il malaffare locale. Il male, partito dal centro si estende fino ad arrivare ai lembi della laguna, dove un giovane vetraio sta realizzando dodici grandi vetrate in una vecchia fornace abbandonata; lì si consuma la tragica fine di una prostituta albanese. A dipanare l’intricata vicenda è chiamato il vice ispettore Giovanni Zanca, già protagonista del precedente romanzo ambientato fra le colline trevigiane di Valdobbiadene; in realtà, più che protagonista, il poliziotto fa da collante di un mondo dove si affollano vicende e personaggi di ogni tipo, che lo scrittore tiene saldamente in pugno: si va da uffici comunali a corridoi di tribunali, a bar di periferia, dove prosperano personaggi sordidi, che sembrano usciti dalle pagine dei Demoni di Dostoevskij o dal Processo di Kakfa; ma altri vi compaiono, come ragazzini cresciuti al margine del malaffare o simpatici mascalzoni, dal sapore picaresco o dickensiano. Al centro, splende la figura di Benedetto Zaccaria, il giovane indomito maestro vetraio, autore delle dodici vetrate- quadri che compongono il romanzo, raffiguranti un moderno Giudizio Universale, quasi una rilettura di quello medievale della basilica veneziana di Torcello; un giudizio che non si ferma alla decorazione di una chiesa, ma che si incarna, evolvendosi nella storia. Quel giudizio è anche una chiave di lettura del libro, sulla scia delle parole di Papa Francesco riportate in esergo: “quel giudizio finale è già in atto, incomincia adesso nel corso della nostra esistenza. Tale giudizio è pronunciato in ogni istante della vita”. I dodici quadri raccontano storie quotidiane di inferno e desolazione, in cui sembra inabissarsi il destino di tutti i personaggi; ma su tutto scende, “come pioggia gentile”, la misericordia, “una pietà sconosciuta”, che si impadronisce anche dei personaggi più squallidi. L’ultimo quadro li afferra e li comprende tutti e va a comporre i fili della storia, riassumendoli nel personaggio più emblematico, il maestro vetraio, assalito da “un misto di angoscia e di speranza”. Alla fine, Sonia, la prostituta moldava che richiama, anche nel nome, l’innocente meretrice di Delitto e castigo di Dostoevskij, gli sorride, mentre sopra San Marco si disegna un cielo “striato da lunghe file di nuvole leggermente arruffate, come solchi di un campo arato da poco. Qua e là brillavano, come piccoli germogli, le stelle”.

Come nell’Inferno dantesco, il male viene attraversato senza lasciare che esso definisca la vita: lì, l’autore antico voleva narrare, oltre la selva, “il ben ch’io vi trovai”. Qui, dalla finestra spalancata sopra i tetti di Venezia, scorgiamo “un mosaico composto da migliaia di tessere incrociate in un miscuglio di armonia e disordine”, in cui solo uno sguardo aperto al Mistero “che domina l’universo” riuscirà a intuire “una nuova possibilità, una nuova occasione di vita”.

Carlo Bortolozzo

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Intervento di Giorgio Vittadini alla presentazione de “Il maestro vetraio”

Innanzitutto vorrei accennare a quali sono i punti di riferimento di questo romanzo. In primo luogo ci si deve riferire a una storia di romanzi polizieschi ‘cattolici’, sia letterari che televisivi o cinematografici, che va da padre Brown allo strano e popolarissimo don Matteo interpretato da Terence Hill (che tra l’altro è un ospite del Meeting 2016). Il poliziesco ‘cattolico’ è una forma letteraria. Tra l’altro molto amata da don Giussani, che vedeva il tenente Colombo, Kojak, Maigret, quindi non solo autori cattolici. Questa forma letteraria è definita dall’idea che, dentro la forma poliziesca, viene indagato il personaggio. E’ tutt’altro dal romanzo d’avventura classico, superficiale in cui l’attenzione è quella tipica del film hollywoodiano che è rivolta a quello che capita. Invece qui, nell’indagare il personaggio, uno è costretto a cesellare gli aspetti del carattere. Se vogliamo a questo tipo di romanzo appartiene anche la letteratura che è la più alta di tutte, come “Delitto e castigo” di Dostoevskij, che di fatto è un romanzo poliziesco. In questo senso la forma della letteratura poliziesca è la migliore per entrare pian piano nel personaggio. Tutto il focus non è su quel che capita, non è un romanzo alla Verne, per intenderci, o alla Salgari, è un romanzo in cui pian piano, gli aspetti dei personaggi vengono a galla, e vengono a galla in modo drammatico. Se vogliamo anche “I promessi sposi” hanno al centro le persone. Ma il poliziesco è caratterizzato dal fatto che i colpi di scena sono come degli avvenimenti che illuminano le persone. E poi c’è anche un’altra caratteristica, questo tipo di romanzo crea un gioco con il lettore a chi scopre prima questi aspetti. Li scopre prima lo scrittore o sei tu per primo a intuire una cosa che ha a che fare con i personaggi?

Questo è il primo filone di riferimento di questo romanzo.

L’altro filone è quello del giudizio universale. Chi ha letto l’ultimo romanzo di Doninelli, “Le cose semplici”, ha trovato l’idea della fine del mondo incombente come qualcosa che ha a che fare con la consunzione della vita quotidiana. Come se la vita quotidiana non ce la facesse più ad andare avanti, e quindi incombesse una fine umana del mondo. Rispetto ai film catastrofistici di qualche anno fa, che mettevano al centro un’esplosione atomica, nucleare, la distruzione a causa della guerra totale, qui invece si tratta della fine dell’umano.

In una intervista Alberto dice che l’idea del romanzo gli è nata sentendo una riflessione di papa Francesco nel dicembre 2013: “Quel giudizio finale è già in atto, incomincia adesso, nel corso della nostra esistenza. Tale giudizio è pronunciato in ogni istante della vita.” Il giudizio universale è la vita di tutti i giorni vista nella prospettiva del destino finale. C’è una vecchia canzone degli anni settanta tradotta dal gruppo Zafra, tratta dalla tradizione delle canzoni latino americane, che in un verso dice: “fece questo gesto come fosse l’ultimo.” Questo gesto ha un valore che va al di là del tempo.

Quindi ne “Il maestro vetraio” si intrecciano questi due generi letterari: ma per ospitare che cosa? Innanzitutto i personaggi. E i personaggi del romanzo sono, se vogliamo usare un termine ecclesiastico, personaggi ‘bergogliani’, se vogliamo usare un termine artistico, sono personaggi ‘jannacciani’. La prostituta dell’Est, il trovatello Nick, il Barba che gestisce il bar tabacchi, l’albanese falsario, Davide il ragazzo depresso: non è la Venezia dei palazzi nobili. Qui anche la Venezia della politica rimane sullo sfondo. Non è neanche la Venezia borghese degli imprenditori. I protagonisti del romanzo sono i personaggi marginali, hanno tutti ‘le scarp del tenis’ ai piedi. Sono quelli che, soprattutto in una città come Venezia, di solito non si guardano. Appunto, si guardano i nobili, si guardano i borghesi, i potenti, si guardano gli imprenditori, i grandi artisti, invece i personaggi del romanzo sono quelli che disturbano i turisti. In una città come Venezia sono quelli da eliminare, che impediscono il turismo, spaventano l’americano e il russo. Invece questi personaggi ci sono nella realtà e il romanzo guarda questi.

Ma come li guarda? Li guarda in funzione della bellezza. Perché le vetrate, che poi corrispondono ai capitoli del libro, raccontano storie normali, sono storie normali, ma belle. Come dire: c’è una bellezza nell’ultimo. Una bellezza che tu di solito non vedi. Si può fare ‘Gomorra’ in cui il brutto è brutto, anzi lo si fa diventare ancora più brutto di quello che è. Si può fare un romanzo alla Dickens in cui si deve far risaltare la miseria, Oliver Twist, David Copperfield, questo tipo di romanzi sociali. Oppure puoi far vedere questi personaggi come una bellezza, un bello che di solito non vedi, come nelle canzoni di Jannacci, di Gaber, dove questi personaggi sono belli, sono dei protagonisti. Infatti li devi rappresentare insieme alle vetrate. La Venezia dell’arte, la città del ‘bello’ per antonomasia nel mondo, vive insieme a questi. Non è un’altra Venezia, vive insieme a questi ‘ultimi’. Gli ‘ultimi’ sono belli. C’è una grandezza nascosta in questi emarginati. E infatti devi vederli nel contesto delle vetrate. Perché?

E qui apriamo un altro riferimento letterario che per me è grandissimo, si tratta di questo grande scrittore cattolico che è Graham Green. Chi lo ha letto sa che in Graham Green, come in tutti i grandi scrittori cattolici, nessun malvagio è totalmente malvagio e nessun buono è totalmente buono. Perché il manicheismo alla ‘Gomorra’, che è pessima letteratura ed è stata fatta passare come interessante per motivi politici, deve dividere il bene e il male. Ma il mondo non è così. Infatti questi personaggi che sono marginali, sono pieni di male, ma sono anche pieni di bene. Sono pieni di desideri. Ricordatevi per esempio di Graham Green, nel romanzo ‘Una pistola in vendita’, là dove c’è il malvagio assoluto, il malvagio col labbro leporino, che rapisce la ragazza, e c’è questo dialogo con lei in cui si capisce che lui ha dentro un disperato desiderio di bontà. Non esiste il malvagio totale perché tutti hanno il cuore, il cuore che parla. E neanche i buoni sono buoni. Non c’è la parte buona. La politica è corrotta, ma anche il mondo normale, il mondo della polizia, non è totalmente buono, non è fuori da questo dramma.

Perché il tema non è il bene e il male, ma è piuttosto il bisogno di redenzione. L’idea che, in qualche modo tutti, guardando questo bello, cercano, desiderano, la grazia. Desiderano che questo male sia vinto anche se ci sguazzano, ci vivono insieme. Vi sembrerà che queste siano cose letterarie. Come a me sembrava una cosa letteraria quando Giussani ne ‘Il senso religioso’ diceva che i bravi prima di andare a fare un’impresa chiedevano la benedizione. Poi ho conosciuto uno che nella vita faceva il ladro e a un certo punto ha smesso di fare il ladro ed è diventato del movimento. Lui mi raccontava che quando stava ancora facendo il ladro, ma si stava convertendo, una volta andò per fare un colpo. Loro non sparavano, facevano dei colpi di destrezza. E lui, che era il cervello della banda, trova una vetrina bellissima, isolata, senza antifurto: negozio perfetto. Invece lui torna dai suoi e dice: “No, lì noi non possiamo. Troppo pericoloso, ci prendono.” E mi diceva: “Sai, io ancora rubavo, ma ero già dalla parte nostra, e in quella vetrina c’era una Madonna. E, se avessimo rubato lì, quello del negozio avrebbe perso la fiducia nella Madonna. Io non potevo farlo.”

Questi sono i personaggi di questo romanzo. E tu puoi fare il male ma sei già dall’altra parte, non appartieni più a questo male perché desideri la grazia. Nel romanzo ci sono passaggi non didascalici, come il protagonista Benedetto, Elena, la moglie del vice ispettore, Sonia, la prostituta moldava che desidera cambiar vita, (e non so se è un caso, ma il nome non può non far venire in mente la Sonia protagonista di “Delitto e castigo”, colei che è il punto di cambiamento per Raskolnikov).

Come nei bei romanzi, nei grandi romanzi, questo cambiamento non è ostentato, non è un’ideologia. Perché i romanzieri cattolici che sono ideologici sono insopportabili, vogliono far vedere che c’è la conversione a tutti i costi, come nei film di Frank Capra. Ma chi ci crede? Invece la conversione, come diceva Carron agli esercizi spirituali di Comunione e liberazione, è un metodo sommesso, avviene in sordina, si vede tra le righe. Il cambiamento, nei personaggi in cui si compie il romanzo, è in punta di penna, bisogna riconoscerlo, non sono dei fatti clamorosi che avvengono, non sono dei percorsi in cui riemerge, ancora una volta, il manicheismo di ritorno. Tutta la trama del romanzo, ed è questo il senso del giudizio universale, è verso un bene che capita, ma è un bene che è misto, come nelle nostre vite, non è bello pronto come nei supermercati, con intorno la plastica dai colori artificiali. E’ da vedere, è tra le pietre.

Una delle pagine che forse interpretano tutto il significato del romanzo è il dialogo del prete che prova a sedare l’irrequietezza di Benedetto nel momento in cui la ragazza che l’ha colpito all’improvviso svanisce. Dice don Giuseppe: «Vedi, c’è una paura cattiva che nasce da un piccolo errore di partenza, come quando ci alziamo al mattino e ci illudiamo che le cose siano nostre: la vita, la salute, la carriera, i capelli, il naso, le mani. (…) Si può costruire una vita, un intero mondo, su questa illusione. Fino a quando, a un tratto, per qualche caso della vita, ci accorgiamo che la verità è un’altra…».

Infatti che cos’è il male? Il male è il peccato? Il male è l’errore? E’ la prostituta, il trovatello, il bar strano del Barba, il falsario? No, il male è un’altra cosa. Il male è l’insicurezza esistenziale, per cui tu, non sentendo il presagio di una grazia, di un amore, costruisci una vita sulla ricerca del potere. Che è il tema di questo Meeting. Allora l’altro non è più una risorsa, ma lo devi dominare. Di un uomo di questo tipo c’è da aver paura. Perché deve affermare se stesso in quello che sta facendo. Allora ogni cosa perde il suo destino da giudizio universale e diventa un pretesto per affermare il potere.

Invece se domina la grazia, se domina la percezione che c’è un bene che sta affermandosi, nel chiaro scuro della vita, nei peccati che rimangono, allora il cammino è sicuro. E’ un cammino che assomiglia, per chi ha fatto un po’ di matematica o di statistica, ad una sinusoide. La sinusoide è una finzione che va su e giù, ma è una funzione che va avanti, perché è un ‘su e giù’ che va avanti. Ed è come la vita che traspare qui, nel romanzo, è la vita appena accennata, come in una vetrata con i colori soffusi, che dietro questo coacervo che è la vita c’è un filo che va. Il filo di un amore che uno può percepire quando è proprio abbandonato, quando è perso, quando non ha più niente. E allora, invece che attaccarsi alle cose e corrompersi capisci che c’è un’altra strada.

Penso che questo sia il contenuto del romanzo. E proprio perché non è un romanzo a tesi, proprio perché questo bene e questo male si mischiano, molto più di quello che ho fatto io per essere comprensibile, è un romanzo godibile, che si legge volentieri. Ma alla fine rimane quello che si prova quando si beve un buon vino, il retrogusto, qualcosa che senti e che ti dura per tanto.

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Francesco Jori

Eugenio mi ha screditato subito dandomi del giornalista cosa che purtroppo non posso negare. Forse voi conoscete una storiella che gira un po’ tra di noi che facciamo questo mestiere. Ci sino due amici che si trovano e uno dice all’altro: “Sai, ho detto a mia madre che faccio il pianista in un locale di lap dance.” “E Perché?” Chiede l’altro. “Non vorrai mica che le dica che sono un giornalista.”

E’ una battuta fino ad un certo punto perché, in effetti, se noi leggiamo il libro di Alberto come se stessimo leggendo un giornale arriveremmo quasi, quasi fino alla fine pensando che viviamo in un mondo pessimo. Alberto usa il solito trucchetto iniziale con la dicitura: “Ogni riferimento è puramente casuale.” E’ una bugia clamorosa di cui porterà le conseguenze. Il libro è’ intriso di fatti di cronaca che leggiamo quotidianamente. Però mi ha sorpreso quando mi ha detto che aveva cominciato a scrivere il libro prima che uscisse lo scandalo del Mose. E allora i casi sono due: o lui è un profeta geniale, che prevede il futuro, oppure è un indovino e allora se qualcuno deve giocare al lotto … In effetti il degrado che viene fuori dal libro è un degrado reale, queste vicende riflettono purtroppo una consuetudine, non solo italiana, ma con cui anche qui in Italia conviviamo ormai da molti anni. Vi è nel romanzo un intreccio che coinvolge tantissime persone, politici, ma anche ufficiali delle forze dell’ordine, magistrati, ecclesiastici della Curia, e ci viene dato uno spaccato di quella che dovrebbe essere la classe dirigente della società intrisa di questi veleni.

Ma dicevo “quasi”, “quasi fino alla fine”, perché in realtà il libro ci porta ad una riflessione, come già nell’Osteria senza oste vi è una riflessione e cioè: quanto siamo distanti noi giornalisti dal descrivere la realtà e quanto concorso di colpa abbiamo nella situazione di degrado che si è creata. Dico della situazione di degrado non pensando assolutamente alle situazioni penali, mi riferisco al nostro vivere civile. Subiamo da tempo un bombardamento di rottura, di riduzione dell’individuo a un piccolo fortino, un piccolo ghetto in cui si barrica dentro. C’è una chiusura progressiva in sé stessi, che viene da lontano, che viene da una mancata semina di valori che è nata da lontano nel tempo, ma se la realtà è quella che ci raccontano i giornali, che ci racconta la televisione, beh allora siamo rovinati.

Mi viene in mente quello che racconta Calvino nella città invisibile dove dell’inferno in cui viviamo.

La verità è che la realtà non è questa. Non è solo questa. Esiste un’altra realtà, molto più ampia che però non esiste per chi non la sa guardare.

Domani è la festa della repubblica. Mi veniva in mente un’opera di Calvino, in cui parla di questa città silenziosa che è quella che manda avanti il Paese. Domani è la festa delle persone silenziose che mandano avanti il Paese, che in qualsiasi ruolo ogni mattina si alzano, fronteggiano una serie di difficoltà, conoscono una serie di cadute e hanno il coraggio di rialzarsi ogni volta. Se noi pensiamo alla nostra esperienza personale conosciamo sicuramente una serie di persone che ci stanno intorno che hanno affrontato questo calvario laico. Molti di noi stessi forse hanno dovuto subire questo calvario. Questa vicenda del Calvario è paradigmatica perché nel momento in cui uno si trova sotto questo carico pesantissimo di difficoltà ha l’impressione di aver perso la partita, di essere sconfitto per sempre. A me viene in mente il terrificante esempio di Gesù Cristo in persona che nel momento di morire lancia quel grido che non è una domanda, è un’affermazione: “Padre perché mi hai abbandonato?” Da per scontato di essere stato abbandonato e si sente tradito nel momento decisivo, però dopo il venerdì di Passione c’è il sabato di silenzio in cui la vita riparte, riparte dietro la pietra del sepolcro, fino a portare alla Resurrezione. Queste sono esperienze che moltissime di noi hanno provato. E quando ci capita una disgrazia ci pare che tutto ci crolli addosso, ma ancora una volta ciascuno di noi trova la forza di ripartire.

Questo è il messaggio profondo che viene dal libro. Tutto sommato il protagonista, il vice ispettore Giovanni Zanca, che è lo stesso del precedente romanzo, “L’Osteria senza oste”, è tutt’altro che un eroe.

Già nel precedente libro viene cacciato via dalla stazione di Polizia di Valdobbiadene e mandato in castigo in una situazione marginale. E qui sicuramente, anche se Alberto non ne fa menzione, perché si prepara ad un terzo romanzo della serie, proprio per questo suo stare sotto tono e fare quello che ritiene il suo dovere, riesce a riscattare l’intera storia. La storia delle persone che girano attorno a lui, è una storia di riscatto, compreso anche il vicesindaco che rimane dentro il carcere ma trova dentro di sé un motivo di riscatto.

Infine una riflessione che chiama in causa tutti noi. Noi non dobbiamo cedere alla dannazione quotidiana che raccontano i media.

Non comprate i giornali e non accendete la TV. O, se lo fate, perché a volte non se può fare a meno, non credete a quello che dicono. Ragionate con la vostra testa, guardatevi intorno con i vostri occhi perché in mezzo alla città, alle periferie eccetera, ci sono queste persone, tutte positive, che costituisce una seconda vetrata umana che è speculare alla vetrata della chiesa.

Questo ci deve suggerire una riflessione. Dobbiamo andare oltre le categorie del bene e del male, sono categorie ‘umane’ queste, che definiamo noi, occorre guardare alla vita nel suo complesso. La vita, in fin dei conti, è un grande laboratorio, un grande laboratorio in cui fare degli esperimenti. Molti esperimenti possono fallire, ma devono essere fatti perché altri riescano. Ogni vita è una vita preziosa, anche quella che subisce un fallimento, perché anche il fallimento ci insegna qualcosa, così come ognuno dei personaggi di questo libro.

Io credo che oggi abbiamo bisogno di andare a scuola di una cosa fondamentale, una parola che è di moda, ma che è una parola bellissima: dobbiamo andare a scuola di misericordia. Il papa Francesco ha avuto il grande merito di rilanciare questa parola, ma che è nell’agenda stessa del messaggio religioso, del messaggio cristiano. Misericordia vuol dire guardare all’altro come a una persona. “Non ti giudico, ti accetto per quello che sei”. E’ una cosa difficile perché, se ci pensate, le relazioni tra le persone sono basate sulla pressione reciproca. L’insulto, l’attacco, la violenza sono tutte basate sulla paura. Io vivo con la paura: ho paura dell’altro. Oggi, per la prima volta nella storia del mondo, la vita ci mette di fronte a tanti altri. Quando il papa dice facciamo ponti e non muri, sfida tutti noi perché la storia nostra è fatta di muri. Ma se guardiamo la storia nessun muro è resistito, sono tutti crollati. E oggi siamo nella situazione in cui il diverso, il lontano, viene tra noi. Nella Marghera del romanzo si incontrano tanti ‘altri’, tanti ‘diversi’, ma che sanno mettersi in relazione tra loro.

Guardate, se volete un’idea avvincente di misericordia, andate a rileggere “Il mercante di Venezia” di Shakespeare. Ad un certo punto Porzia, nella scena in cui si trova in tribunale, fa un’arringa in cui c’è un passaggio sulla misericordia che è qualcosa di strepitoso. Ed è un punto di congiunzione per che crede e chi non crede. E dice quanto importante sia guardare all’altro, al diverso, con misericordia appunto.

In fin dei conti c’è tutto dentro la parabola del buon samaritano. Perché il samaritano, nella cultura dell’epoca, era quanto di più distante vi era da Israele. Però lui è l’unico che si ferma, si ferma e riconosce nel diverso il suo prossimo. Il prossimo è la persona quindi più lontana come provenienza, ma che interseca la mia strada. E’ nell’incontro con lui che riparte una reciproca speranza. Ed è questo il punto che può unire chi crede e chi non crede. Oggi abbiamo bisogno di parlarci, di volerci bene. Abbiamo bisogno di metterci in confronto tra di noi facendo di questa diversità una ricchezza.

In fin dei conti nel romanzo di Alberto le persone sono straordinariamente diverse una dall’altra, eppure hanno un punto di convergenza.

Ecco, per chiudere il libro è scritto bene, è scritto in modo molto avvincente e ci sono questi due piani di cui parlava Graziano, delle vetrate in corsivo e del giallo in tondo che ricorda molto, per chi l’ha letto, “Il maestro e Margherita” dove si trova anche qui una storia su due piani, da una parte la storia del maestro e Margherita e dall’altra il racconto della passione e dell’incontro tra Cristo e Pilato e poi della crocifissione

Ed è un pregio che il libro si faccia leggere, ma il più grande pregio del libro è questo messaggio che ci lancia. Perché guardate che la salvezza non è un regalo, la salvezza è qualcosa che ognuno di noi deve conquistare faticosamente ogni giorno, tra mille cadute, e ogni volta deve ritrovare la capacità di rialzarsi.

Ci vuole assolutamente una pedagogia della misericordia che non troverete sicuramente, torno a dire, sui giornali ma che c’è. Che c’è.

Noi dobbiamo avere il coraggio di guardare alle tante Marghera del mondo come un luogo di riscatto.

La storia della salvezza passa attraverso queste persone. Maria era una ragazzina, Mosè era un profugo. Ognuno di noi rispondere a questi messaggi, ciascuno facendo la sua parte, come fa il viceispettore Zanca e come fanno tutti i personaggi in apparenza negativi. In questo senso il romanzo è un po’ una iniezione, non dico di ottimismo, ma un antidoto alla tristezza che ci dà modo di vivere affannoso e caotico di questi giorni.

Quindi, in sintesi, invece che guardare la TV o leggere i giornali, leggete il libro di Alberto così non rischiate di evitare il suicidio. (35.30)

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Il mosaico a vetri del giallo di Raffaelli

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Graziano Debellini – Oratorio del redentore

Per me il secondo romanzo di Alberto, è stata una sorpresa.

Non entro qui nel merito della trama perché poi il libro bisogna venderlo e se poi si entra troppo nella trama si perde il gusto di leggerlo tanto più perché questo è un romanzo giallo, con qualche aspetto di thriller.

In questo romanzo abbiamo due grandi episodi attorno a cui la cornice si svolge: il primo è una misteriosa donna trovata uccisa a Marghera e poi lo scandalo per corruzione del vicesindaco di Venezia, salvo poi capire, nel corso del romanzo, che lui era un capro espiatorio, non era lui l’artefice della corruzione, ma c’era un giro più grande di affari.

Questa è la cornice dentro cui si svolge il romanzo.

Dal punto di vista umano il centro del romanzo è la vetrata fatta di dodici quadri che questo ragazzo, Benedetto Zaccaria, sta realizzando in una vecchia fornace di Marghera. Questa vetrata artistica è destinata al restauro di una piccola chiesetta in rovina a Marghera, alle porte di Venezia. La storia di questo ragazzo, che ha cominciato a fare il mestiere del vetraio seguendo suo padre, un grande maestro vetraio, è segnata come un sottofondo musicale, dalle immagini dei mosaici di San Marco e della Basilica di Torcello. La figura centrale quindi di tutto il romanzo è Benedetto ed è la figura che rappresenta secondo me il cuore del romanzo. E’ un ragazzo semplice, un giovane schivo, di poche parole, timido, un animo fortemente religioso. Quando si incontrano queste vetrate cambia il carattere della stampa, si passa al corsivo, e comincia la descrizione dei quadri delle vetrate e la cosa impressionante che ho scoperto con lui è stata che descrive la vetrata e ti fa entrare nella storia che questa vetrata esprime. C’è un passaggio molto bello nel libro: quando i preti della Curia di Venezia vengono a conoscere questa cosa si arrabbiano perché questo modo di descrivere la vita è sentita da loro come una cosa strana.

C’è un’idea importantissima nel libro. Questo ragazzo, Benedetto, attraverso queste vetrate, vorrebbe strappare il velo che nasconde la vera realtà per vederne finalmente le forme e i colori, “ma la realtà si ritraeva, si rendeva impalpabile, sfuggiva. Toccarla una volta, tastarne la scorza, sentirne la consistenza…”

Questo rapporto di Benedetto con la realtà in cui vorrebbe entrare è un tema centrale del romanzo e i quadri della vetrata sono il suo modo per entrare nella realtà e risultano uno spaccato incredibile della vita. Il luogo dove lavora Benedetto, una vecchia fornace, diventa nel tempo il centro dove si incrociano tutte le storie del romanzo. Questo accade quasi senza che Benedetto se ne accorga, perché lui va lì ogni giorno a fare il suo lavoro, e per lui è faticoso arrivarci, ogni giorno parte da Venezia, prende l’autobus, deve fare l’ultimo tratto a piedi in una zona degradata, un po’ pericolosa. In questo luogo potete incontrare il piccolo Nick, un ragazzino albanese ospitato nella parrocchia di Marghera che impara a lavorare, suo zio che invece è un trafficante, sua mamma che lo aveva abbandonato Nick da piccolo e ad un certo punto va in cerca del figlio e scopre che lui aveva trovato il suo destino nel rapporto con Benedetto, un destino buono. E poi c’è Sonia, ma la sua storia la lascio scoprire a voi. C’è il parroco, don Giuseppe poi il vice ispettore che svolge le sue inchieste e sua moglie Elena, una figura molto interessante da seguire, infatti il romanzo finisce con una lettera di Elena a Benedetto.

Poi c’è l’amante del vicesindaco, Valentina, questa storia un po’ intrigante e perciò vi lascio la curiosità di andarla a leggere.

Ed infine c’è il Barba: il Barba è in qualche modo il centro vero di contrabbando e di malaffare a Marghera.

Ed anche la sua è una storia che non gira tutta negativamente.

I quadri della vetrata, che troviamo narrati in corsivo, raccontano storie tragiche o commoventi di miseria o di redenzione.

Quando le leggete vi accorgerete sempre di qualche dettaglio bellissimo. Ne cito una: una storia d’amore fra due persone che non vogliono perdonarsi, ma nella scena finale di questo quadro, lui, il padre, si butta in ginocchio.

In queste scene si incontra un cristianesimo semplice, che fiorisce e fa capire più di qualsiasi discorso.

In tutto il romanzo la suspense è altissima ed è una suspense che avvolge tutti i personaggi, sembra che stia sempre per succedere qualcosa. Questo mi ha ricordato un po’ la mostra di Hopper che ho visitato a Bologna nei giorni scorsi. Hopper diceva che i suoi personaggi, queste donne che sono alla finestra, che sono in attesa perché tutto può cambiare improvvisamente. I personaggi di Alberto hanno tutti questo accento di qualcosa che sta per accadere.

E in tutte le pagine del romanzo c’è questo riverbero: tutto può cambiare improvvisamente anche in mezzo al dolore, alla desolazione umana, alle intricate e contraddittorie vicende umane. Di queste trovate qui uno spaccato bellissimo.

Il pensiero più importante che volevo dire è che Alberto, ci porta dentro la durezza della realtà, perché la realtà è tosta come ci dice sempre qualche amico, per scoprire cosa c’è di positivo. Questo libro all’inizio doveva avere un titolo che era legato al tema del Giudizio Universale. Il titolo poi è cambiato ma il tema del giudizio è rimasto. Lui dice nel libro a pagina 200: “il giudizio è vedere le cose dal punto di vista di Dio”.
Infatti il tema che prende la scena, e che ad un certo punto diventa il centro di tutto il romanzo, dentro i volti e i dettagli dei vari personaggi, è la possibilità di trattare le circostanze di dolore e di male in una prospettiva di bene.

Dunque, punto finale, com’è che il male, che resta sempre male, e ci può essere solo il miracolo di Qualcuno che trasforma le circostanze di male in una occasione di bene, ma il male rimane sempre male.
Ma questa possibilità che il male si trasformi in una occasione di bene, come può avvenire?

Questo, secondo me, è il grande messaggio che io ho colto leggendo un paio di volte questo libro. Perché nel romanzo c’è, in tutti i personaggi, anche quelli più scaltri e più negativi, c’è come un’attesa di bene, piccola o grande. C’è una attesa e un desiderio del bene che segna, in qualche modo, la vita di tutti, disgraziati, farabutti, delinquenti o altro. Però, ed è l’idea finale che volevo dire, però il bene non arriva per una strada etica, non arriva su una strada in cui uno si mette a posto e fa il bravo. Ad un certo punto, e qui è bellissimo nel romanzo perché è una cosa che si ripete, ad un certo punto succede una cosa nuova. Il perdono non è l’esito di un nostro percorso etico, di una nostra analisi psicologica, quando arriva il perdono è un’altra cosa, è una cosa nuova. Sono bellissime le pagine da 249 a 251 dove si parla di due mendicanti e si trova questa idea: è un’altra cosa, non c’è un percorso per cui tu entri in una pedagogia di bene e alla fine c’è il perdono. No, quello che accade ad un certo punto è un’altra cosa.

Cito una frase molto bella a riguardo di questo pensiero: è una frase di don Giussani che dice: “Questa cosa nuova non è fatta di discorsi suggeriti dalla saggezza umana o propositi di bene o progetti o impegni poggiati sulla nostra volontà di vita, oppure sulle nostre energie, sul nostro gusto di lavoro. E’ una cosa nuova, che ci viene incontro, che accade, che succede.” Continua ancora Giussani. “E’ una misura che si allarga, è come se la nostra coscienza e la nostra affettività, perciò il nostro io e le persone a cui ci leghiamo, venissero introdotte in un ignoto, in un orizzonte imprevisto, oltre la nostra misura dove tu non avresti mai immaginato.”

Concludendo: in questo romanzo c’è questo profumo, c’è il profumo di questa gioia, di questa scoperta, di questa sorpresa. Infatti nella lettera finale di Elena a Benedetto, nelle ultime righe, troviamo questa espressione: “Inizia tutto di nuovo”.

La cosa più bella è quella che arriva potente e gratuita e riempie anche il nostro dolore. Lo riempie di una prospettiva nuova, lo riempie con un pezzo di paradiso.

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