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“Il maestro vetraio”, un giallo appassionante (ma non solo)

«Venezia era apparsa all’improvviso». Questo l’incipit de “Il maestro vetraio”, il romanzo che Alberto Raffaelli propone, per le edizioni Itaca, dopo il successo, favorito anche da concomitanti fatti di cronaca, de “L’Osteria senza oste”.

E Venezia non è solo uno sfondo nel romanzo di Raffaelli. Non è un luogo letterario. È un luogo vero, vissuto in prima persona dall’autore. I riferimenti topografici sono sempre molto puntuali. Raffaelli Venezia l’ha vissuta, l’ha amata e nel volume questo amore diventa conoscenza profonda, dettagliata. «Venezia è come una vera da pozzo, una di quelle che sorgono in mezzo ai campielli, su cui possiamo sporgerci per ficcare lo sguardo nel buio e cercare là in fondo… Perché non si può amare davvero senza cercare di capire».

Venezia però è anche Marghera, una periferia violentata dagli insediamenti industriali che poi hanno lasciato lo spazio ad abbandono e desolazione, oltre che a traffici di merci e denaro quando non di persone. Ma proprio in questa periferia devastata sceglie di operare – anzi sono i fatti che lo conducono, una commessa del Comune di Venezia – Benedetto Zaccaria, figlio di maestro vetraio e vetraio lui stesso, che lavora per recuperare la chiesa diroccata della Madonna del mare senza ricostruire la muratura, ma installandovi attorno una vetrata in dodici quadri.

È proprio la figura di Benedetto e i quadri della sua vetrata a dare il ritmo e indicare l’orizzonte ultimo del romanzo. Perché se con “Il maestro vetraio” le regole del giallo sono rispettate fino in fondo – del giallo ha la struttura, il ritmo serrato, la consequenzialità delle situazioni – giallo tuttavia non si può definire. La narrazione si configura piuttosto come un grande affresco, scandito dalla descrizione dei singoli quadri della vetrata. Un Giudizio Universale (evidente e presente nel libro il riferimento ai mosaici di Torcello) dei nostri tempi, in cui entrano storie estreme, crude, scene di ordinari inferni generati dagli idoli dell’usura, della lussuria e del potere, ma anche scene – potentissima e dal sapore dostoevskiano l’ultima dei mendicanti – in cui emerge la forza del perdono e della misericordia. Raffaelli racconta la corruzione, lo sfruttamento, la falsità dei potenti, le trame dell’autorità civile e la compiacenza delle sfere ecclesiastiche e nel contempo lascia agli “ultimi” il compito di dire un’ultima parola su tutto ciò. Che non è una parola di condanna.

Se questo è l’intento e l’impianto del romanzo, dobbiamo aggiungere che l’autore poi ci regala una serie di personaggi che sa gestire con disinvoltura, sempre freschi e credibili. Benedetto, anzitutto, figura cardine del romanzo, l’investigatore Giovanni Zanca (già presente ne “L’Osteria senza oste”), l’ambizioso vicesindaco Marco Scarpa, il misterioso “Barba”, gestore di un bar di Marghera e forse di molti altri affari non sempre puliti, ma anche gli indimenticabili Nick, il ragazzino che ha adottato una gallina, Orges, il ladro di timbri (in una delle pagine più irresistibili dell’opera), o lo stralunato Davide con la sua insolita forma di disabilità. Personaggi coerenti (con qualche riconoscibile cenno a persone reali), ben orchestrati, per una vicenda che si legge d’un fiato e che mescola i registri della cronaca e della narrazione di ampio respiro, dell’ironia e del dramma, tenendo sul filo il lettore fino alla poetica, lieve conclusione.

Dal blog “C’è gloria per tutti” – Eugenio Andreatta

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Giallo. Che cosa c’è dietro la vetrata?

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Il mosaico a vetri del giallo di Raffaelli

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Poliziesco di provincia nell’osteria del Cartizze

Il filosofo Raffaelli immagina un intrigo multi trame con personaggi strambi e quotidiani, compresa una pecora. Ma il finale è «rosa».

C’è chi senza oste non riesce a fare un conto e chi, come l’autore di questo libro, riesce a fare un… racconto.
Professore di filosofia, ma anche esperto nel settore del turismo eno-gastronomico, Raffaelli ha scritto un romanzo a più trame, che fonde mondo e coscienza, indagine poliziesca e storia d’amore, cibo e sapienza di vita. Forse è troppo, e infatti qualche momento di affanno tra le righe c’è, ma è meglio avere il respiro instabile che il fiato corto.

Più trame, dicevo, ma legate fra loro. Giovanni Zanca è vice-ispettore di polizia in una cittadina del trevisano e sta per andare in pensione. Vive più con Antonio, l’attendente, che con la moglie Elena, soprattutto per diverse inchieste che proprio ora gli sono capitate fra le mani.

Nello Sartori, carrozziere, ha alle sue dipendenze (si fa per dire perché lavora in nero) Adam, un brasiliano in attesa di permesso di soggiorno, che un po’ più in là nel romanzo simpatizzerà con Chiara, sconclusionata ragazza mai a posto in nessun posto, tanto meno a scuola. All’appello mancano un direttore di banca, il comandante della stazione di Polizia, la moglie del carrozziere, i genitori di Chiara ex universitari (lui redattore televisivo e lei commessa).

Ma il personaggio principale, se così si può dire, è una osteria, una bicocca in cima a una delle colline del posto.
Stagliata tra i celebri vigneti del prosecco di Conegliano (alias «Cartizze»), offre al buon cuore dei turisti sia da mangiare che da bere, fidando nella loro spontanea carità. Di notte, invisibile a tutti, un anziano austro-tedesco in vena di altruismo, Ari, viene a rassettare e a rifornire quel che manca per un altro giorno di generosa filantropia.

Dimenticavo un ulteriore attore su questo eterogeneo palco: un animale, per la precisione una pecora, di proprietà di Nello il carrozziere, che volutamente lasciata libera lungo gli incroci provoca incidenti a tutto vantaggio della ditta. Non sembrerebbe vero, ma 

tout se tient, vale a dire che tutto procede e la vita continua nonostante che tra persone e personaggi del libro, fatti e misfatti e strane storie il lettore ha sempre più voglia di vedere come va a finire il romanzo. Che una vera e propria conclusione non ce l’ha, perché sin dal principio non si è proposto un intrigo, un’indagine, un intreccio che conduca in porto una serie di ipotesi da dimostrare. Il poliziotto ha i suoi sospetti, indaga, inquisisce, si apposta, e in cuor suo ha la soluzione dei furti di arredi sacri, della scomparsa di un anello, di serate di giochi d’azzardo e così via, ma non realizza l’inchiesta per via di superiori insabbiamenti.

Il carrozziere licenzia Abram sospettato come ladro d’anello della moglie e continua nel suo sporco mestiere. Eccetera.
Gli unici a risolvere il loro disegno sono Abram e Chiara, che si mettono insieme per la vita. Il libro è una serie di quadri, autonomi nell’ordito, convergenti nel contenuto: esempi più o meno probi di come vivere per sé e per gli altri.

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Osteria senza oste lo scenario “giallo” di Alberto Raffaelli

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L’Osteria senza oste ora serve ai lettori uno psico-giallo