(AUGURIO DI BUON ANNO)
Ad una delle finestre di quei palazzoni ogni tanto si affacciava una donna. Anche quella sera Bruno andò a cercarla con lo sguardo e riuscì a distinguere nel buio la brace della sua sigaretta.
Non sapeva niente di lei, né il nome, né la faccia, solo il profilo scuro che si stagliava sullo sfondo della stanza illuminata. Eppure gli sembrava di conoscerla. Quella donna spesso era là, fumava e sembrava fissarlo. Se solo avesse alzato la voce lei l’avrebbe sentito. Più volte si era chiesto se si aspettava che lui parlasse e poi, magari, salisse da lei.
Se l’era chiesto più volte, senza avere il coraggio di farlo.
Lui non lo sapeva, ma anche lei aveva gli stessi pensieri. Con quell’uomo dai capelli ingrigiti che urlava ai ragazzini tutto per tutto il pomeriggio e alla sera rifaceva le righe del campo, da solo, avrebbe voluto parlarci, almeno una volta.
Chissà se aveva una donna, o se l’aveva perduta. Chissà se ne aveva bisogno. Così si chiedeva.
Ogni tanto la sua voce la raggiungeva mentre era a letto con un altro uomo.
Allora le cresceva dentro una pena che le serrava la gola, fino quasi a soffocarla.
Perché quell’uomo, come un idiota, si illudeva ancora. Non le fotteva nulla di sapere di che cosa. Lui si illudeva.
E le faceva tornare il ricordo del suo bambino. Chissà dov’era finito, forse in Italia o da qualche parte nel mondo, a fare qualcosa o a non fare nulla.
Glielo aveva lasciato uno sconosciuto che era stato con lei per qualche ora. Maicol, così l’aveva chiamato. Era riuscita a tenerlo con sé per qualche anno, poi gliel’avevano portato via.
“Con la vita che fai non puoi più crescerlo tu” le avevano detto quelli dei servizi sociali.
Se si fossero fatti gli affari loro, quei maledetti, forse adesso sarebbe ancora con lei.
Per anni se l’era dimenticato, ma col tempo il ricordo di Maicol, invece che spegnersi, era cresciuto.
E sempre più spesso rivedeva una scena precisa. Lui stava giocando da solo, seduto per terra, poco prima che glielo portassero via. Lei si era fermata a guardarlo e in un istante aveva intravisto qualcosa che stava nascosto laggiù, nel pozzo profondo dei suoi occhi.
Lei e Maicol si erano guardati, in silenzio.
Il bambino si era accorto di aver lasciato aperta, per un istante, la porta dell’anima e aveva provato pudore.
Subito era tornato a giocare, facendo finta di niente.
Ma lei ormai aveva visto.
In fondo agli occhi di Maicol c’era una sorta di attesa, qualcosa che aveva la forma di un sogno, forse di una speranza.
Era proprio quel sogno che aveva intravisto a procurarle un dolore atroce.
Con gli anni aveva imparato che gli uomini sono capaci di tutto. Possono tradire la donna, il padre, un amico, possono abbandonare chiunque al bordo di una strada, come fanno con i cani, oppure gettarli in uno stagno, senza fare una piega.
Di una cosa soltanto si vergognavano, la stessa che lei aveva visto in fondo agli occhi di Maicol.
Non sarebbe stato nulla lo sguardo volgare di un uomo, le mani addosso, le carni tormentate, il corpo schiacciato. E nemmeno il letto sporco, il materasso per terra, la cucina col cibo avanzato e le urla delle altre donne.
Tutto questo sarebbe stato appena un fastidio.
Avrebbe potuto in ogni momento farla finita, andare a buttarsi da qualche parte, senza rimpianto, senza dolore.
Se non fosse stato per quello che aveva visto in fondo agli occhi di Maicol, lo stesso sogno che aveva visto in qualche altro uomo.
Aveva provato a parlarne un’unica volta con un’amica che abitava con lei. L’altra aveva capito. Doveva aver visto anche lei quella cosa, dal pertugio degli occhi di un uomo, o di un bambino.
Quando andava alla finestra a fumare e vedeva quell’uomo girare per il campo da solo, dopo un po’ le veniva da alzare lo sguardo alle stelle e implorare sottovoce: “C’è qualcuno, da qualche parte dell’universo, che ha pietà del sogno del mio piccolo Maicol?”.
(Delitto al Caffè Pedrocchi, pp. 132 – 134)