IL PRIMO QUADRO DELLA VETRATA DI BENEDETTO ZACCARIA

Benedetto Zaccaria era un giovane di trent’anni, aveva trascorso gran parte della giovinezza nella fornace di suo padre, a Venezia. Lì aveva imparato il mestiere di maestro vetraio, sgambettando fin da piccolo tra i banchi di lavoro con in mano attrezzi che a stento riusciva a tenere. Sua madre era morta quando aveva appena dieci anni. Il padre, Luigi Zaccaria, non aveva avuto scelta: non avendo nessuno a cui lasciare il bambino, se l’era portato dietro al lavoro. La fornace Zaccaria, che sorgeva nel quartiere di Dorsoduro, dalle parti di Santa Fosca, era diventata la vera casa di Benedetto. Appena usciva da scuola, tornava lì e se ne andava via alla sera.

(…)

I momenti più felici della sua infanzia erano state le giornate passate nella basilica di San Marco.
Quella non era una chiesa, era un mondo.

Andando dietro a suo padre lungo le impalcature montate a ridosso delle pareti e delle volte, a Benedetto capitava di rimanere incantato dalle storie che vi erano rappresentate: uomini e donne incorniciati con aureole, corone e mantelli, fra animali mansueti e bestie feroci, in mezzo a battaglie di navi a vele spiegate sulle onde del mare.

«Ci sono più storie narrate in questi mosaici che in tutta la Bibbia» commentava con orgoglio suo padre. «E c’è più oro zecchino qui che in ogni altro posto del mondo».

(…)

Quel giorno il sole stava ormai calando all’orizzonte. Benedetto aveva spento il forno e rimesso a posto gli attrezzi. Prima di tornarsene a casa, aveva però deciso di ridare un’occhiata al primo quadro della vetrata che aveva terminato.

Si diresse verso il fondo del capannone, scostò dal muro il carrello e lo rivolse verso gli ultimi raggi di sole che scendevano dai finestroni lungo il tetto.

All’improvviso le tessere di vetro opaco si illuminarono e ripresero vita. Si scorgeva una scena con delle figure, gesti accennati, la lieve espressione di un viso, uno sguardo. L’istante che vi era rappresentato lasciava trapelare una storia.

Benedetto fece qualche passo indietro per poter abbracciare con lo sguardo il quadro della vetrata.

Seduti al tavolino di un caffè di piazza San Marco, un uomo e una giovane donna, lui vestito da turista, lei con una gonna estiva…

«“Quando un giorno, in una sala da concerti, mi suoneranno Brahms, languirò di nostalgia…”: è un verso di Pasternak» mi disse Arianne. «Stasera c’è un concerto alla Fenice, ho due biglietti, credo che in programma ci sia anche Stravinskij».
Mi aveva accolto così la prima volta che c’eravamo incontrati sulla terrazza del Des Bains al Lido di Venezia.
Arianne parlava senza nessi apparenti, gettava le parole oltre le formalità, senza calcoli.
Aveva prenotato un palco con una coppia di amici per quella sera, non ho idea di chi avesse avuto in mente di portare prima di incontrarmi. Accettai, disarmato dalla sua bellezza.
Arrivai per tempo alla Fenice. Lei mi aspettava all’ingresso del teatro in un abito estivo che lasciava immaginare il profilo del suo corpo. Era bellissima. Il collo affusolato era cinto da un filo d’oro bianco abbinato a fini orecchini di perla. Sorrideva dei miei sguardi stupiti.
Alla fine dello spettacolo si fermò a salutare degli amici nel foyer del teatro.
«Chissà se guarda così tutti gli uomini» mi ero chiesto, già geloso di lei.
«Facciamo due passi?» mi propose quando restammo soli.
«È la prima volta che mi capita di avere il tempo di visitare Venezia» le dissi. «Ci sono venuto di fretta un altro paio di volte».
«Shakespeare ha ragione» mi disse, «il mondo è il palcoscenico su cui ognuno recita la propria parte, e Venezia è il teatro più straordinario che si possa immaginare».
«Ma tu non sei nata a Venezia…».
Lei lasciò cadere il discorso.
Camminammo un poco in silenzio.
«Venezia non è una città dove si nasce» buttò lì dopo un po’. «Tutti qui sono di passaggio, in procinto di partire o appena arrivati da qualche parte del mondo».
Ogni tanto le nostre braccia si sfioravano, ma non trovavo il coraggio di toccarla.
Ero a Venezia solo per alcuni giorni, mandato dal mio giornale per seguire la mostra del cinema.
D’acchito volevo rinunciare all’incarico.
«Io e tua madre siamo stati in viaggio di nozze a Venezia» mi aveva detto mio padre. «Vai, Mark, vai a Venezia…».
Il giornale mi aveva prenotato una camera all’Hotel Bauer.
Arianne aveva il compito di farmi da guida nei tre giorni che sarei rimasto.
Quella notte camminammo quasi due ore. Il buio ci aveva dato fiato.
Oltrepassammo San Marco, Riva degli Schiavoni, arrivammo fino all’isola di Sant’Elena, all’estremità di Venezia.
Ogni tanto Arianne mi accennava qualcosa; davanti alla chiesa della Pietà, mi raccontò di Vivaldi, il ‘prete rosso’, poi quando arrivammo all’Arsenale altre storie che non ricordo, poi l’isola di sant’Elena con la Biennale…
Tornammo in hotel che era tardi. Arianne mi lasciò alla reception.
«Domattina se vuoi ti accompagno a vedere qualcos’altro».
Accennai di sì con la testa, ammutolito dal pensiero di rimanere solo.
«Alle nove va bene?».
«Ti aspetto».
Mi voltai e me ne andai, soffocato dalla malinconia di non poterla portare con me.
La mattina dopo Arianne aveva un’aria fresca e riposata. Indossava una camicetta e una gonna sportive, mi sembrava ancora più bella.
Andammo a fare colazione al caffè Florian, in piazza San Marco. L’orchestrina si stava preparando per suonare.
Arianne mi parlava della storia di Venezia, mentre io ero incantato a guardarla. Ogni tanto mi chiedeva qualcosa e le brillavano gli occhi perché s’accorgeva che mi ero distratto. Le scappava un sorriso quando scopriva il mio sguardo perso su di lei.
«Quella è la facciata della basilica».
Mi girai a fatica.
«Di san Marco, l’evangelista, immagino che tu non sappia nulla» mi chiese, già sicura della risposta.
Io feci una smorfia, come un ragazzo che non ha studiato.
«Eppure ha il tuo nome, Mark. Ha scritto un Vangelo» s’interruppe. «Sei cristiano?».
Da anni non me l’aveva mai chiesto nessuno. Scossi la testa.
«Musulmano?».
«No, non mi ha mai interessato la religione. Mia madre è ebrea, mio padre viene da una famiglia cristiana, ma non mi ha mai parlato di queste cose».
«Venezia non la capisci se non provi a immedesimarti negli uomini che l’hanno fatta. Senza le loro speranze, le loro devozioni, non si capiscono gli ori, i palazzi, le chiese».
Appena finita la colazione, si alzò dal tavolino.
«Andiamo, ti porto a vedere qualcosa».
Le passerelle per l’acqua alta erano accatastate ai lati della piazza.
«I cavalli in bronzo, lassù, sopra il portale, li hanno portati da Costantinopoli. Con la quarta crociata, nel 1200. I veneziani avevano promesso al papa che avrebbero liberato la Terra Santa e invece han fatto razzia di quello che restava dell’Impero romano d’Oriente. Gli ortodossi hanno impiegato secoli a perdonarci l’oltraggio».
«Quello è Rustico da Torcello» mi disse indicando una lunetta di uno dei portali. «È lui che ha portato qui il corpo di san Marco. Lo ha trafugato da Alessandria d’Egitto. Per sfuggire al controllo delle guardie musulmane, lo ha nascosto sotto un mucchio di carne di maiale».
Non ricordo le scene che lei indicava e di cui mi svelava la storia.
«Qui c’è un pezzo di storia del mondo» mi spiegò entrando sotto il cielo d’oro delle volte della basilica. «I mosaici bizantini, l’oro portato dai mercanti veneziani da ogni parte del globo. Per più di mille anni Venezia è stata la signora incontrastata dei mari allora conosciuti».
«E Marco Polo è sepolto qui…?» le avevo chiesto. Lei si mise a ridere.
«No, non so dove sia la sua tomba».
Sorrise ancora per un po’. L’unica cosa che sapevo della storia di Venezia me l’ero giocata così.
Entrammo nella penombra soffusa della basilica.
«Quell’icona antica è la Nikopeia, la Madonna delle Vittorie, che i veneziani hanno portato sulla prua della nave ammiraglia nella battaglia di Lepanto».
Abbozzai anch’io un gesto della mano sulla fronte come vedevo fare alla gente che entrava.
Poi passammo a Palazzo Ducale e Arianne mi parlò della Repubblica Serenissima, della successione secolare dei dogi fino alla conquista di Napoleone.
«Andiamo a mangiare» dissi alla fine. «È mezzogiorno passato».
Scegliemmo un ristorante con i tavolini all’aperto affacciati sulla laguna. Il vento le muoveva leggermente i capelli e la gonna. Ordinammo del pesce e del vino bianco frizzante.
Restammo un poco in silenzio a guardare il tremolare dell’acqua e l’isola di San Giorgio.
«Non ho mai capito se Venezia sia più bella o più triste» mi confidò. «Ti lascia sempre incredulo. Dietro la sua facciata si nasconde qualcosa che sfugge e che non riesci mai ad afferrare».
Mangiammo in silenzio. Avevo troppe cose da dirle, ma non avevo il coraggio.
«Oggi vedrò il regista, il mio soggiorno è finito» le dissi. «Tornerò ancora a Venezia se ci sarai tu ad accompagnarmi».
Lei mi guardò. Era felice di quelle parole e triste di non poter accettare.
«Non credo» mi disse.
Cercai di balbettare qualcosa, non ricordo, ma le parole stonavano, suonavano ridicole.
«Sei bellissima» le sussurrai.
Lei sorrise. Se l’aspettava.
«Venezia è come una vera da pozzo, una di quelle che sorgono in mezzo ai campielli, su cui possiamo sporgerci per ficcare lo sguardo nel buio e cercare là in fondo… Perché non si può amare davvero senza cercare di capire».
Forse rimasi a osservarla un istante di più, facendo attenzione al suo volto più che alle sue parole.
«Intendo Venezia. Se rimani alla facciata non serve a nulla…» ribadì con un sorriso.
Poi era rimasta anche lei sopra pensiero. Alla fine mi guardò.
«Però si può amare senza possedere» aggiunse.
«Di cosa parli, di Venezia?».
«No» e sorrise di nuovo.
«Non so, non immagino nemmeno come sia possibile».
Lei si alzò, mise la mano sulla mia spalla, avvicinò le labbra alla mia guancia e la sfiorò con un bacio.
«Mark…» disse quasi in un soffio. Non intesi mai cosa volesse esprimere pronunciando il mio nome.
La vidi allontanarsi con la gonna che tremolava alla brezza della laguna.

Benedetto rimase ancora per qualche istante a fissare la vetrata, poi staccò gli occhi.

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