Francesco Jori

Intervento

5 Luglio 2016

Eugenio mi ha screditato subito dandomi del giornalista cosa che purtroppo non posso negare. Forse voi conoscete una storiella che gira un po’ tra di noi che facciamo questo mestiere. Ci sino due amici che si trovano e uno dice all’altro: “Sai, ho detto a mia madre che faccio il pianista in un locale di lap dance.” “E Perché?” Chiede l’altro. “Non vorrai mica che le dica che sono un giornalista.”

E’ una battuta fino ad un certo punto perché, in effetti, se noi leggiamo il libro di Alberto come se stessimo leggendo un giornale arriveremmo quasi, quasi fino alla fine pensando che viviamo in un mondo pessimo. Alberto usa il solito trucchetto iniziale con la dicitura: “Ogni riferimento è puramente casuale.” E’ una bugia clamorosa di cui porterà le conseguenze. Il libro è’ intriso di fatti di cronaca che leggiamo quotidianamente. Però mi ha sorpreso quando mi ha detto che aveva cominciato a scrivere il libro prima che uscisse lo scandalo del Mose. E allora i casi sono due: o lui è un profeta geniale, che prevede il futuro, oppure è un indovino e allora se qualcuno deve giocare al lotto … In effetti il degrado che viene fuori dal libro è un degrado reale, queste vicende riflettono purtroppo una consuetudine, non solo italiana, ma con cui anche qui in Italia conviviamo ormai da molti anni. Vi è nel romanzo un intreccio che coinvolge tantissime persone, politici, ma anche ufficiali delle forze dell’ordine, magistrati, ecclesiastici della Curia, e ci viene dato uno spaccato di quella che dovrebbe essere la classe dirigente della società intrisa di questi veleni.

Ma dicevo “quasi”, “quasi fino alla fine”, perché in realtà il libro ci porta ad una riflessione, come già nell’Osteria senza oste vi è una riflessione e cioè: quanto siamo distanti noi giornalisti dal descrivere la realtà e quanto concorso di colpa abbiamo nella situazione di degrado che si è creata. Dico della situazione di degrado non pensando assolutamente alle situazioni penali, mi riferisco al nostro vivere civile. Subiamo da tempo un bombardamento di rottura, di riduzione dell’individuo a un piccolo fortino, un piccolo ghetto in cui si barrica dentro. C’è una chiusura progressiva in sé stessi, che viene da lontano, che viene da una mancata semina di valori che è nata da lontano nel tempo, ma se la realtà è quella che ci raccontano i giornali, che ci racconta la televisione, beh allora siamo rovinati.

Mi viene in mente quello che racconta Calvino nella città invisibile dove dell’inferno in cui viviamo.

La verità è che la realtà non è questa. Non è solo questa. Esiste un’altra realtà, molto più ampia che però non esiste per chi non la sa guardare.

Domani è la festa della repubblica. Mi veniva in mente un’opera di Calvino, in cui parla di questa città silenziosa che è quella che manda avanti il Paese. Domani è la festa delle persone silenziose che mandano avanti il Paese, che in qualsiasi ruolo ogni mattina si alzano, fronteggiano una serie di difficoltà, conoscono una serie di cadute e hanno il coraggio di rialzarsi ogni volta. Se noi pensiamo alla nostra esperienza personale conosciamo sicuramente una serie di persone che ci stanno intorno che hanno affrontato questo calvario laico. Molti di noi stessi forse hanno dovuto subire questo calvario. Questa vicenda del Calvario è paradigmatica perché nel momento in cui uno si trova sotto questo carico pesantissimo di difficoltà ha l’impressione di aver perso la partita, di essere sconfitto per sempre. A me viene in mente il terrificante esempio di Gesù Cristo in persona che nel momento di morire lancia quel grido che non è una domanda, è un’affermazione: “Padre perché mi hai abbandonato?” Da per scontato di essere stato abbandonato e si sente tradito nel momento decisivo, però dopo il venerdì di Passione c’è il sabato di silenzio in cui la vita riparte, riparte dietro la pietra del sepolcro, fino a portare alla Resurrezione. Queste sono esperienze che moltissime di noi hanno provato. E quando ci capita una disgrazia ci pare che tutto ci crolli addosso, ma ancora una volta ciascuno di noi trova la forza di ripartire.

Questo è il messaggio profondo che viene dal libro. Tutto sommato il protagonista, il vice ispettore Giovanni Zanca, che è lo stesso del precedente romanzo, “L’Osteria senza oste”, è tutt’altro che un eroe.

Già nel precedente libro viene cacciato via dalla stazione di Polizia di Valdobbiadene e mandato in castigo in una situazione marginale. E qui sicuramente, anche se Alberto non ne fa menzione, perché si prepara ad un terzo romanzo della serie, proprio per questo suo stare sotto tono e fare quello che ritiene il suo dovere, riesce a riscattare l’intera storia. La storia delle persone che girano attorno a lui, è una storia di riscatto, compreso anche il vicesindaco che rimane dentro il carcere ma trova dentro di sé un motivo di riscatto.

Infine una riflessione che chiama in causa tutti noi. Noi non dobbiamo cedere alla dannazione quotidiana che raccontano i media.

Non comprate i giornali e non accendete la TV. O, se lo fate, perché a volte non se può fare a meno, non credete a quello che dicono. Ragionate con la vostra testa, guardatevi intorno con i vostri occhi perché in mezzo alla città, alle periferie eccetera, ci sono queste persone, tutte positive, che costituisce una seconda vetrata umana che è speculare alla vetrata della chiesa.

Questo ci deve suggerire una riflessione. Dobbiamo andare oltre le categorie del bene e del male, sono categorie ‘umane’ queste, che definiamo noi, occorre guardare alla vita nel suo complesso. La vita, in fin dei conti, è un grande laboratorio, un grande laboratorio in cui fare degli esperimenti. Molti esperimenti possono fallire, ma devono essere fatti perché altri riescano. Ogni vita è una vita preziosa, anche quella che subisce un fallimento, perché anche il fallimento ci insegna qualcosa, così come ognuno dei personaggi di questo libro.

Io credo che oggi abbiamo bisogno di andare a scuola di una cosa fondamentale, una parola che è di moda, ma che è una parola bellissima: dobbiamo andare a scuola di misericordia. Il papa Francesco ha avuto il grande merito di rilanciare questa parola, ma che è nell’agenda stessa del messaggio religioso, del messaggio cristiano. Misericordia vuol dire guardare all’altro come a una persona. “Non ti giudico, ti accetto per quello che sei”. E’ una cosa difficile perché, se ci pensate, le relazioni tra le persone sono basate sulla pressione reciproca. L’insulto, l’attacco, la violenza sono tutte basate sulla paura. Io vivo con la paura: ho paura dell’altro. Oggi, per la prima volta nella storia del mondo, la vita ci mette di fronte a tanti altri. Quando il papa dice facciamo ponti e non muri, sfida tutti noi perché la storia nostra è fatta di muri. Ma se guardiamo la storia nessun muro è resistito, sono tutti crollati. E oggi siamo nella situazione in cui il diverso, il lontano, viene tra noi. Nella Marghera del romanzo si incontrano tanti ‘altri’, tanti ‘diversi’, ma che sanno mettersi in relazione tra loro.

Guardate, se volete un’idea avvincente di misericordia, andate a rileggere “Il mercante di Venezia” di Shakespeare. Ad un certo punto Porzia, nella scena in cui si trova in tribunale, fa un’arringa in cui c’è un passaggio sulla misericordia che è qualcosa di strepitoso. Ed è un punto di congiunzione per che crede e chi non crede. E dice quanto importante sia guardare all’altro, al diverso, con misericordia appunto.

In fin dei conti c’è tutto dentro la parabola del buon samaritano. Perché il samaritano, nella cultura dell’epoca, era quanto di più distante vi era da Israele. Però lui è l’unico che si ferma, si ferma e riconosce nel diverso il suo prossimo. Il prossimo è la persona quindi più lontana come provenienza, ma che interseca la mia strada. E’ nell’incontro con lui che riparte una reciproca speranza. Ed è questo il punto che può unire chi crede e chi non crede. Oggi abbiamo bisogno di parlarci, di volerci bene. Abbiamo bisogno di metterci in confronto tra di noi facendo di questa diversità una ricchezza.

In fin dei conti nel romanzo di Alberto le persone sono straordinariamente diverse una dall’altra, eppure hanno un punto di convergenza.

Ecco, per chiudere il libro è scritto bene, è scritto in modo molto avvincente e ci sono questi due piani di cui parlava Graziano, delle vetrate in corsivo e del giallo in tondo che ricorda molto, per chi l’ha letto, “Il maestro e Margherita” dove si trova anche qui una storia su due piani, da una parte la storia del maestro e Margherita e dall’altra il racconto della passione e dell’incontro tra Cristo e Pilato e poi della crocifissione

Ed è un pregio che il libro si faccia leggere, ma il più grande pregio del libro è questo messaggio che ci lancia. Perché guardate che la salvezza non è un regalo, la salvezza è qualcosa che ognuno di noi deve conquistare faticosamente ogni giorno, tra mille cadute, e ogni volta deve ritrovare la capacità di rialzarsi.

Ci vuole assolutamente una pedagogia della misericordia che non troverete sicuramente, torno a dire, sui giornali ma che c’è. Che c’è.

Noi dobbiamo avere il coraggio di guardare alle tante Marghera del mondo come un luogo di riscatto.

La storia della salvezza passa attraverso queste persone. Maria era una ragazzina, Mosè era un profugo. Ognuno di noi rispondere a questi messaggi, ciascuno facendo la sua parte, come fa il viceispettore Zanca e come fanno tutti i personaggi in apparenza negativi. In questo senso il romanzo è un po’ una iniezione, non dico di ottimismo, ma un antidoto alla tristezza che ci dà modo di vivere affannoso e caotico di questi giorni.

Quindi, in sintesi, invece che guardare la TV o leggere i giornali, leggete il libro di Alberto così non rischiate di evitare il suicidio. (35.30)

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